- All’interno della tua produzione discografica qual è la registrazione che più ti rappresenta?
Non saprei dire, ho una produzione discografica minuscola, un CD pubblicato e uno in arrivo… devo dire che forse il lavoro da cui mi sento maggiormente rappresentato è quello in arrivo: Tre soli per tre contrabbassi. I lavori inclusi nel CD Stradivarius sono un po’ più “anziani” e penso che ciascuno proponga qualcosa che forse varrebbe la pena di sviluppare, ma che probabilmente non svilupperò mai, perché nel frattempo, come ti dicevo, mi sto spostando e quelle linee di pensiero sono in parte legate ad un’altra stagione della mia vita.
- La registrazione della tua composizione Quelli che vivono per otto esecutori disposti nello spazio e supporto è stata recentemente pubblicata dalla label Stradivarius. Vuoi parlarci di questa tua opera e della sua genesi?
Quelli che vivono mi fu commissionato dal Festival Milano Musica nel 2012. E’ un po’ difficile ritrovare il senso di un lavoro la cui genesi è così lontana. E’ il primo pezzo in cui ho utilizzato lo spazio come componente compositiva esplicita e, in effetti, questa componente in registrazione è piuttosto sacrificata, appiattita. Diciamo che l’ascolto della registrazione porta ad un’esperienza diversa che corrisponde ad un punto di ascolto impossibile e prossimo a tutte le fonti sonore, molto dettagliato, che ha un suo interesse peculiare. Al di là di alcuni aspetti tecnici e formali, che per me restano importantissimi sia come autore che come ascoltatore, il centro della composizione è nel dialogo fra un presente di suoni strumentali o quasi strumentali (c’è un apparato di oggetti quotidiani usati come percussioni, che nel corso del pezzo si trasformano in strumenti veri e propri) e un non presente (il nastro) fatto di suoni ambientali e presenze umane variamente trasformati in suoni sintetici. Oggi probabilmente non penserei più in termini simili, ma all’epoca avevo immaginato il pezzo come una specie dialogo fra ciò che è umano, ciò che non lo è più e ciò che non lo è, possiamo anche pensarlo in termini di memoria (le voci registrate e trasformate) e attualità, di vita quotidiana che diventa musica. Per questo all’inizio del pezzo ho aggiunto pochi secondi di rumori ambientali presi durante la registrazione… lo stesso dovrebbe accadere in esecuzione: uno dei musicisti deve arrivare in ritardo, senza fretta e in maniera naturale (non è teatro!) e i suoni che produce (i passi, l’aggiustarsi in postazione) devono entrare direttamente nella musica in modo che il confine fra il fuori e il dentro, fra ciò che è musica e ciò che non lo è diventi un po’ meno chiaro. Questa è una direzione di lavoro potenzialmente interessante, che qui ho solo sfiorato. Probabilmente non ci tornerò più, ma, magari, potrà tornare utile ad altri. E’ uno dei primissimi lavori in cui ho usato dell’elettronica molto elementare. Per anni ho avuto un pregiudizio fortissimo nei confronti dell’elettronica, in parte ben motivato dato che molta della musica elettronica che sentivo (e sento) non mi piaceva (e non mi piace) per nulla. Ammettevo solo l’uso del live electronics (che non ho mai usato, per totale mancanza di competenze), poi lentamente mi sono spostato. Da un lato ho iniziato a lavorare sui feedback (che in effetti possiamo considerare live electonics molto rudimentale) dall’altro l’ascolto della musica di Lucier, in larga misura basata sull’uso di sinusoidi, mi stava lentamente influenzando. Diciamo che tutte e tre le composizioni presenti in quel CD risentono di quell’influenza, filtrata attraverso la mia prospettiva personale.
- Come riesci a far convivere la tua forte connotazione autoriale con un’altrettanta marcata propensione a collaborare a progetti altrui?
E’ un bellissimo complimento ma purtroppo non sono molto sicuro di avere una forte propensione a collaborare ai progetti altrui, anzi, è un limite che mi riconosco e sul quale mi sono interrogato. Ho la capacità di prestarmi come strumentista ad altri compositori e, in effetti, è già qualcosa. Altre persone, in altri ambienti (credo che c’entri un po’ anche la situazione milanese sia attuale sia della mia stagione di formazione) si mettono in contatto con molta facilità e riescono a produrre progetti collettivi che vanno a vantaggio di tutti, soprattutto durante le prime fasi della propria attività artistica. A me non è successo, i musicisti con cui avevo maggiore condivisione di vedute non erano molto propensi a collaborazioni, diciamo, strutturate: si parlava molto, ci si prestavano strumenti, si scambiavano conoscenze ed esperienze, io ho messo a disposizione le mie capacità strumentali ed è stato un periodo molto fertile. Però non si è mai riusciti ad andare oltre questo – fondare un ensemble, cercare di portare avanti una stagione, lo hanno fatto altri, ma non io, non le persone a cui mi sentivo più vicino. Guardo con grande ammirazione e apprezzamento all’esperienza di Avidi Lumi a Roma: sono musicisti giovani, fra i 25 e i 36 anni, hanno preso in affitto uno spazio, lo hanno riempito di strumenti, lavorano assieme, producono musica, organizzano concerti, lezioni, trovano finanziamenti. Questo è lavorare insieme, questo non l’ho saputo fare e lo ritengo una mancanza grave. Diciamo che sicuramente l’altro mio lato musicale, quello dello strumentista compensa un po’ questi aspetti: sia come jazzista che come compositore con competenze strumentali sono molto collaborativo (ma selettivo), in particolare mi piace mettermi a disposizione di altri compositori. Da un lato forse mi sento più libero di fare cose anche diverse, che deviano dal mio percorso compositivo, dall’altro entrando in un mondo altrui imparo cose che non conoscevo, faccio cose che non avrei mai fatto o riguardo da altri punti di vista cose familiari. Questo vale naturalmente anche per l’improvvisazione.
- A tuo avviso questo periodo di crisi, durante e dopo l’emergenza sanitaria, può offrire anche delle opportunità agli artisti?
Da un certo punto di vista, forse, quest’esperienza ha dato un colpo di grazia alla narrazione del progresso: nessun europeo occidentale nato dopo la Seconda Guerra Mondiale ha mai pensato realmente, concretamente, di poter fare un’esperienza simile della precarietà radicale dell’esistenza (esperienza normale nel passato e, purtroppo, anche oggi in gran parte del mondo). Si pensava di essere protetti, che certe cose non sarebbero mai più accadute e magari che sicuramente in futuro questa situazione ideale si sarebbe gradualmente diffusa, per osmosi, al resto del mondo. Invece è successo e ognuno reagisce in modo diverso, siamo stati costretti a guardarci in faccia, ad affrontare in maniera molto cruda il tema dell’assenza, dell’immobilità, della morte come esperienza individuale e collettiva, a toccare corde dell’esperienza umana che non ci saremmo mai aspettati di toccare. Tutto questo produrrà dei cambiamenti profondi a livello sociale e personale, ma immaginare quali è molto difficile, anche se ho notato un maggiore dinamismo nella programmazione che ha modificato le proprie tempistiche. Ovviamente ogni cambiamento, anche quelli di cui avremmo fatto volentieri a meno è un’opportunità di crescita e trasformazione. Penso che si apriranno forse degli spazi inediti per i giovani e forse per musicisti che finora sono rimasti nell’ombra. Molti di noi, soprattutto nel primo durissimo lockdown, hanno raccolto le forze e si sono buttati nello studio (anche per sopportare le nuove condizioni di vita), io stesso ho lavorato molto in questi due anni, ma adesso mi sento saturo. Mi viene in mente anche un’altra cosa: è possibile che, un po’ paradossalmente, quest’esperienza da “sopravvissuti”, possa contribuire a dare maggiore sicurezza e fiducia nelle proprie risorse.
- Quali sono i tuoi nuovi progetti in vista?
Ho scritto tanta musica che, per una ragione o per l’altra, non è mai stata suonata, il mio primo progetto, quindi, è cercare di farla suonare. In primavera dovrebbe essere eseguito un quartetto d’archi che ho finito quattro o cinque anni fa e a cui ho iniziato a lavorare nel 2011 o nel 2012. Poi ci sono progetti sensati e insensati, dei secondi, che non vedranno mai la luce, non parlo, per quanto riguarda i primi sto per mettermi a lavorare ad un pezzo per tre tromboni (eseguibile con due tracce pre-registrate) che spero di licenziare entro la fine del 2022, poi vorrei scrivere un lavoro per flauto basso (con feedback) e (poche) percussioni, per Avidi Lumi. Negli ultimi anni ho iniziato a raccogliere dei pezzi per uno/due/tre clarinetti, diversi sono già a uno stato piuttosto avanzato di pre-lavorazione, non so quanti saranno alla fine né quanti né sopravviveranno, né quando finirò di raccoglierli. Ma il progetto più importante è un altro: sento che mi sto “spostando”, che il modo in cui sono stato musicista fino ad oggi mi sta stretto: il progetto più impegnativo è quello di portare a termine questa trasformazione che, per tanti versi è enigmatica. Ma il mio vero obiettivo è svuotarmi, smettere di scrivere musica prima di morire e godermi per qualche anno il mondo solo da spettatore. Sono un contemplativo che si è forzato al fare, ma la mia vera natura mi chiama lì.