Clinica&Ricerca

Il paziente cardiopatico e l’alleanza con il cardiologo

La seconda parte dell’intervento del dottor Maurizio Azzini, cardiologo, che ha spiegato ai membri dell’equipe odontoiatrica e ai soggetti interessati tutto ci  che c’  da sapere rispetto ai rischi del paziente cardiopatico.

Terapia antitrombotica con nuovi anticoagulanti orali (NAO)

• L’effetto clinico anticoagulante è presente dal primo giorno di terapia e scompare in 12/36 ore (emivita 5-9 h, 12-17 h). 

• Non è necessaria l’interruzione della terapia con i NAO: no terapia ponte.

• Programmare l’intervento nella fase temporale di moderata azione anticoagulante del farmaco: 12/15 h dopo l’ultima dose. 

• La terapia può essere ripresa lo stesso giorno dell’intervento.

Da notare con molta attenzione: il costo annuo medio della terapia con decumarolici è 25-30 euro; quello della terapia con NAO 500/800 euro.

Terapia antitrombotica: 

TAO – Terapia ponte

Nei pazienti con rischio trombotico elevato e medio/basso la TAO può anche non essere sostituita con terapia ponte: si può semplicemente ridurre l’anticoagulante orale (Coumadin o Sintrom) sino a ottenere INR 2,2-2,4.

Per i pazienti con rischio trombotico molto elevato, solo terapia ponte; preventiva consulenza con il cardiologo per lo schema della terapia ponte; potrebbe essere saggio prevedere la presenza del cardiologo stesso. 

In ogni caso è indispensabile un dosaggio dell’INR la mattina con intervento pomeridiano: errori di schema o di comprensione da parte del paziente sono sempre possibili; se INR è maggiore a 3,5, sospendere l’intervento.

Terapia antitrombotica con protesi valvolare – FA (TAO)

• Rischio molto elevato: terapia ponte con EBPM

• Rischio elevato: terapia ponte o adeguamento INR

• Rischio basso: adeguamento INR (o terapia ponte).

Allora, in conclusione, si può non sospendere niente di quello che sta facendo un paziente cardiopatico nel momento in cui arriva in studio. Se si vuole modificare qualcosa ci sono delle regole a cui attenersi. 

Per la terapia antitrombotica, invece, con i nuovi anti coagulanti orali, i famosi NAO, sappiamo che l’effetto clinico viene già nel primo giorno: un paziente che non li ha mai presi, inizia ad assumerli il primo giorno, ed è già scoagulato. L’effetto può scomparire in 12/36 ore tanto che alcuni vengono usati in monodose, altri vengono usati in doppia dose. L’emivita di questi farmaci varia a seconda del farmaco, da 5/9 a 12/17 ore. I NAO possono benissimo non essere mai sospesi. Non c’è necessità, perché comunque non si ha possibilità di instaurare una terapia ponte e non ho un indice o un parametro di riferimento, cioè non ho un PTT. Quello che posso fare per evitare un sanguinamento particolarmente fastidioso è programmare l’intervento nella fase in cui l’azione di questi farmaci è più bassa, cioè 12/15 ore dopo l’assunzione dell’ultima dose. Io allora posso operare e il farmaco può essere già ripreso il giorno successivo dal paziente o, se è il farmaco è da assumere due volte al giorno, può essere preso già dalla sera dopo l’intervento. 

Terapia antitrombotica – 

Antiaggregazione

I pazienti affetti da cardiopatia ischemica sono una popolazione variegata e complessa:

• paziente in terapia medica

• paziente con PCI e stent singolo

• paziente con plurimi stent

• paziente con BPAC singolo

• paziente con BPAC + stent

• paziente con contrattilità miocardica normale, sufficientemente conservata, depressa 

• paziente con pacemaker, con CRT-CD

Norme di sicurezza

Quando ho iniziato a fare il cardiologo nel 1980 la situazione era nettamente diversa: a parte che c’erano molto meno farmaci di quanti ne siano oggi, in generale la gravità che il paziente presentava era immediata, cioè il paziente moriva nella prima ora, moriva in unità coronarica, moriva appena dimessi dall’ospedale. Quindi, il massimo del rischio il paziente lo correva indicativamente nel primo mese dagli eventi acuti, adesso i pazienti sopravvivono fortunatamente anche decine di anni dopo un evento cardiaco grave. Di conseguenza fanno in tempo ad averne più di uno, ad avere complicazioni e successive riparazioni. La patologia cardiovascolare sta acquisendo una specificità individuale che è molto complessa sul piano clinico, ma contemporaneamente anche molto interessante sul piano umano e sociale. Cioè, la clinica ci costringe, almeno nel settore cardiologico, a riconsiderare i pazienti come individui e non come categorie di patologie, perché ognuno ha necessità specifiche. Ed è proprio qui che nasce il grosso problema dell’assistenza della medicina di base, oltre che nelle pandemie. Anche per questo io sono convinto che la medicina privata non potrà mai dare una risposta umana, scientifica ed economicamente sostenibile ai problemi medici quotidiani: può solo lavorare di eccellenze ma le eccellenze riguarderanno sempre una minoranza sia delle problematiche sia dei pazienti. 

Di certo per “muoversi” in questo settore esistono delle norme non scritte da seguire. A cominciare dall’anamnesi che è fondamentale: deve essere fatta con più attenzione possibile, cercando di raccogliere dettagli completi sulla patologia del paziente. Bisogna accertarsi che la diagnosi sia definitiva perché spesso il paziente ha già avuto confronti con altri cardiologi, ha già avuto una terapia impostata ma l’iter diagnostico-terapeutico non è ancora finito. È necessario che la terapia sia stata completamente stabilita. Inoltre, norma medico-legale, bisogna far controfirmare al paziente il modulo dopo che sono stati raccolti i dati anamnestici. Va accertato che sia stato eseguito un controllo almeno dei 12 giorni precedenti, l’ideale sarebbero 6 mesi perché il quadro può cambiare nel tempo. Bisogna verificare che il paziente assuma regolarmente la terapia prescritta: le terapie oggi dei pazienti cardiopatici sono talmente complesse e plurifarmacologiche che spesso, soprattutto le persone più anziane, capita che si faccia confusione sull’assunzione dei farmaci. E guardate che non ci sono solo i farmaci antitrombotici o anticoagulanti: come rischio ci sono anche i betabloccanti, per esempio. Una sospensione improvvisa dei betabloccanti può portare a un rebound ipertensivo anche a livelli superiori a quelli di partenza per cui i farmaci erano stati prescritti.

Quindi è doveroso prendere visione degli ultimi esami diagnostici strumentali, con particolare riguardo a quelli che possono individuare i pazienti a rischio: se sono stati fatti, per esempio, l’ecocardiogramma 2d, l’angiotac coronarica che può far vedere l’anatomia o nuove lesioni. Non bisogna pretendere che però i pazienti si presentino con tutti questi esami perché sarà proprio il cardiologo a decidere se e quando devono fare un holter. Se il paziente è cardiopatico che vi sembra potenzialmente pericoloso bisogna richiedere esami ematochimici recenti, meno di sei mesi e soprattutto per i pazienti sopra gli 80 anni. Sicuramente tra gli esami bisognerebbe richiedere una creatinina e un filtrato glomerulare, perché se si trova un’insufficienza renale grave ci sono tutte le complicazioni del caso e non è possibile trattare il paziente in studio. Nell’anziano, infatti, un’insufficienza renale moderata potrebbe aggravarsi in breve tempo. È utile, se non indispensabile, il consulto con il cardiologo curante. È bene non sospendere alcuna terapia antitrombotica senza il parere scritto del curante. Guardate che io e il dottor Leghissa anche recentemente abbiamo avuto esperienza di altri colleghi odontoiatri che chiedevano banalmente  la sospensione dell’aspirina. C’è di peggio: anche alcuni cardiologi hanno dato la stessa raccomandazione, ovviamente verbalmente, senza nulla di scritto: in caso fosse successo qualcosa la colpa sarebbe ricaduta su di noi se non avessimo avuto la cura e lo scrupolo di verificare ogni dettaglio. Attenzione anche al fatto che le indicazioni del cardiologo non siano differenti dalle linee-guida. In caso di complicazioni e relative contestazioni, non essersi attenuti alle linee guida è fonte di responsabilità difficilmente giustificabili. Sia chiaro, si può sempre  “uscire” dalle linee guida, non sono un obbligo, c’è scritto anche nelle premesse delle stesse linee guida. Però, mentre attenersi alle linee guida non lo devi giustificare, uscire deve essere sempre giustificato. Bisogna anche sempre calcolare il livello di rischio del paziente. 

Un esempio. Un signore arriva e ci dà l’anamnesi della prima visita. Ci dice di essere il portatore di un pacemaker bicamerale, cioè con due cateteri, non defibrillatore, e di avere una fibrillazione atriale permanente in terapia anticoagulante. Ma dopo averci ricordato ogni singola faringite della sua vita tralascia due informazioni fondamentali: nel 1996 aveva fatto 4 bypass e in quel momento, al momento della visita, era in carico all’ambulatorio scompenso cardiaco in un Ospedale di Milano. Quel paziente tre mesi dopo l’intervento è morto una notte in cui io ero in pronto soccorso proprio a causa di quello scompenso così grave e non dichiarato. 

Secondo caso clinico. In anamnesi, alla prima visita odontoiatrica il paziente ci dice di soffrire di un diabete mellito di tipo due, quindi assume antidiabetici orali, nel 2003 ha fatto una angioplastica con uno stent. Lo reinterrogo io in preoperatoria e aggiunge due particolari: un episodio di toracalgia che aveva avuto due mesi prima Quindi la sua situazione clinica era modificata tanto che gli avevano fatto un controllo coronarografico per vedere se andava tutto bene. Il paziente sosteneva che non fossero emerse novità dalla coronarografia. Pretendo di vedere la relazione clinica: in realtà gli avevano trovato una nuova stenosi che non c’era al momento dell’impianto del 2003. Era dunque diventato un paziente a rischio di ischemia acuta in qualsiasi momento non essendo la terapia medica assodata: infatti non aveva ancora fatto una prova da sforzo di verifica post rinnovo della terapia, quindi si trattava di un paziente assolutamente da classificare come cardiopatia ischemica instabile. L’intervento era da rinviare.

Terzo caso: nel corso della prima visita il paziente riferisce la presenza di tre stent su due coronarie. E dopo un anno aveva messo un nuovo stent per stenosi, cioè per chiusura di uno dei tre stent messi in precedenza. Quindi un paziente con il rischio trombotico di chiusura sia delle coronarie native che degli stent applicati notevole che però, siccome stava benissimo, da 4 anni non faceva nessun controllo. 

Allora, tendenzialmente, se non si ha esperienza, se non si ha un monitor defibrillatore in studio e se non c’è eventualmente un cardiologo presente, il mio consiglio, non sono le linee guida, è di rinviare l’intervento per: 

• pazienti che non abbiano diagnosi definitiva senza una terapia stabilita perché sono pazienti; 

• Pazienti con infarto da meno di sei mesi; 

• Pazienti con una rivascolarizzazione coronarica inferiore ai sei mesi. Tenete conto che i pazienti che hanno avuto uno o più stent nei primi sei mesi sono ad alto rischio, tanto che la maggior parte di loro sono in terapia con doppia antiaggregazione; 

• pazienti che stiano riferendo dolori anginosi se insorti da meno di tre mesi o che rispetto alla norma siano in aggravamento o che non siano ancora controllati con la terapia medico chirurgica. 

• Pazienti ultraottantenni con una valvulopatia mitralica reumatica con fibrillazioni. È un caso molto particolare, però tenete conto che la valvulopatia reumatica ha un maggior rischio di trombosi sulla valvola rispetto a valvulopatie mitraliche non reumatiche. Inoltre la fibrillazione conseguente a una malattia reumatica ha più rischi di trombosi per cui si somma un doppio aumento di rischio, quello della valvola e quello dell’F.A.. In un paziente che ha più di 80 anni il problema potrebbe diventare triplo, cioè avere non solo una maggiore trombogenicità, ma anche una possibile difficoltà soggettiva a imbeccare un’eventuale terapia ponte con terapia anticoagulante.

• Pazienti che abbiano una contrattilità miocardica gravemente compromessa. Basta, se si sospetta o se già è segnalata nelle anamnesi precedenti una contrattilità miocardica compromessa, chiedere un ecocardiogramma di controllo una volta all’anno. 

• Pazienti con pregresse aritmie ventricolari maggiori. Questo è un problema minore, nel senso che la stragrande maggioranza di questi pazienti sono già andati all’impianto di defibrillatore. Quindi è difficile che troviate pazienti che hanno avuto aritmie ventricolari maggiori a cui non è stato ancora impiantato il pacemaker. Da segnalare però, ad esempio, la sindrome di Wolff-Parkinson-White, un’anomala conduzione cardiaca, determinata dalla presenza di vie accessorie o anomale che collegano atrio e ventricolo, localizzate in diversi e precisi punti del cuore: può dare fibrillazioni anche i giovani e prima di mettere il pacemaker bisogna fare tutta una serie di analisi invasive perché se si può evitare di mettere un defibrillatore con un rischio modesto lo si fa. 

• Pazienti portatori di ICD, CRT, CRT-D 

La nostra esperienza. 

Sui 379 pazienti che sono riuscito completamente a ricostruire, ma anche negli altri non ho ricostruito, non abbiamo avuto alcuna complicazione, neanche l’aumento delle extrasistole di base probabilmente perché il numero di pazienti è ancora troppo piccolo per avere un significato statistico. In realtà dei 379, solo 275 erano classificabili come cardiopatici certi, perché 101 erano nelle “varie” e magari nessuno era cardiopatico (noi lo abbiamo messo perché eravamo incerti di cosa fosse). Dei 275 solo 112 avevano un rischio medio o alto e solo 8 un rischio molto alto. Tra i 112 c’era una giovane donna che aveva  un’anomalia elettrofisiologica modestissima che non le darà mai nessun problema.

Farmaci di emergenza

Reazione allergica:

• cortisonici e.v. (metilprednisolone 125 mg, desametasone 4 mg, betametasone 4 mg)

• Salbutamolo spray, per via orale o nasale

Crisi ipertensiva:

– Nifedipina gocce per uso sublinguale (5-20 ggtt ripetibili dopo 15 minuti)

Crisi ipotensiva:

– Nessuno. Non usare mai farmaci per aumentare la pressione (pericolosissimi in pazienti cardiopatici). Se semplice reazione vasovagale sollevare le gambe

Scompenso cardiaco:

• Diuretici e.v.

Ischemia acuta:

• Ac. Acetilsalicilico e.v.

• Nitrati spray (sublinguale)

• Chiamare 112

Fibrillazione atriale

• Non trattare: inviare in ps

Aritmie ventricolari (TV, Flutter, FV)

• Defibrillatore automatico o semiautomatico

• Contemporaneamente chiamare 112

Due parole sul defibrillatore che io consiglio di avere in studio anche se non è obbligatorio: è sicuramente un salvavita efficiente ed efficace. La sua presenza può risultare molto “difensiva” in caso di contestazione. È utile anche la presenza del cardiologo. Ma la presenza del cardiologo senza defibrillatore è inutile. 

• Il defibrillatore automatico senza monitor: una volta applicati gli elettrodi e acceso l’apparecchio non è richiesto alcun intervento manuale dell’operatore per erogare la scarica (circa 1000 euro).

• Il defibrillatore semiautomatico (con monitor): richiede l’azione del soccorritore per erogare la scarica: l’apparecchio esegue l’analisi e ordina verbalmente se e quando erogare la scarica (tra 6mila euro, consigliabile, e 16mila euro, eccessivo).

L’uso del defibrillatore sia automatico che semiautomatico è consentito anche al personale sanitario non medico e ai “laici” che abbiano ricevuto una formazione specifica in rianimazione cardiopolmonare. 

Posizione delle piastre

Prima piastra: sotto la clavicola dx a lato dello sterno

Seconda piastra: sulla linea ascellare media sinistra all’altezza del 5° spazio intercostale, a sinistra del capezzolo

Sulle piastra è segnalata la posizione.

Rianimazione cardiopolmonare

• Appoggiare le mani sulla metà inferiore dello sterno

• Una mano sull’altra

• Braccia tese e rigide (non piegare i gomiti)

• Il busto si flette e le spalle si inclinano per comprimere

• 100/120 compressioni al secondo

Una persona

• Alternare 3 compressioni e 2 ventilazioni. La compressione è fondamentale; se una persona non è in grado di eseguire entrambe le manovre deve continuare a comprimere senza interruzione.

Due persone

• Una comprime, l’altra ventila adeguandosi alla compressione.