Cultura

Leggere – Interpretare – Inventare: L’alea come strumento didattico nella musica

Introduzione

«L’esecutore guarda il foglio a caso e comincia da un gruppo, il primo su cui gli è caduto l’occhio, lo suona scegliendo a suo piacere il tempo (escluse sempre le note stampate più piccole), l’intensità, dinamica ed il tipo di attacco, e guardando un altro gruppo a caso, suona questo secondo con altre indicazioni suddette… Ogni gruppo si può congiungere con ciascuno degli altri diciotto e può così essere suonato in base a ciascuno dei sei tempi e livelli dinamici e con ciascuno dei sei modi d’attacco… Questo pezzo per pianoforte dovrebbe venire possibilmente eseguito due volte, o più, nel corso di uno stesso programma»

Immagine 1

In questa nota di presentazione del Klavirstück XI, K. H. Stockhausen scrive una frase, a mio parere talmente interessante, che ne faccio il punto di partenza di questa mia riflessione sullo sviluppo della creatività:

L’esecutore […] suona scegliendo a suo piacere…”

Qui il termine piacere è evidentemente riferito alla libertà concessa all’esecutore di scegliere cosa e come suonare, ma non si può non cogliere anche il significato letterale del termine che acquisisce nel campo della didattica un’importanza primaria[1]. Solo suscitando negli allievi la curiosità, l’interesse e la voglia di suonare si produrranno le giuste condizioni affinché si verifichi un apprendimento significativo[2]. Quando si suona per il piacere di farlo, non si provano tutte quelle tensioni negative che influiscono sull’esecuzione.

È relativamente facile costatare come la maggior parte delle preoccupazioni e delle frustrazioni nei musicisti principianti sia da imputare alla lettura della notazione musicale. Per un principiante quasi tutte le energie dell’atto esecutivo si concentrano nella lettura a scapito dei parametri più importanti: fraseggio, espressività, dinamica, ecc. cioè tutte quelle variabili che concorrono ad una coerente interpretazione. In una recente ricerca gli studiosi McPherson e Gabrielsson hanno dimostrato che il privilegiare lo studio della notazione troppo precocemente può portare ad una diminuzione della sensibilità musicale. All’insegnamento tradizionale della notazione essi promuovono un approccio più globale, nel quale l’apprendimento della lettura e della scrittura musicale non sia svincolato da altre attività come il suonare ad orecchio, l’improvvisazione, l’esecuzione di musica ascoltata, il suonare a memoria[3].

Nelle partiture grafiche, tipiche della musica aleatoria, molto più che in quelle tradizionali oltre a prendere in esame ogni singolo segno è possibile dirigere la propria attenzione verso la pagina nel suo complesso: «la possibilità di una visione di insieme dell’evento musicale costituisce una caratteristica peculiare specifica di un certo tipo di grafie e appare di enorme rilevanza didattica, perché permette di sviluppare una riflessione sulla struttura musicale che costituisce un capitolo tanto importante quanto trascurato nella formazione tradizionale»[4].

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, si è registrato un fermento innovativo che ha portato a sostanziali mutamenti nei sistemi di notazione. Con il termine alea si intende la corrente compositiva sviluppatasi dagli anni cinquanta in avanti in cui il compositore ricerca la collaborazione creativa dell’interprete tramite una reinterpretazione del concetto di notazione musicale. Il compositore accorda agli esecutori una certa libertà improvvisativa: se questa libertà è limitata ad alcuni parametri (ad esempio l’improvvisazione tra determinate altezze) si parla di alea controllata.

Sull’onda di queste innovazioni si sono prodotte anche diverse pubblicazione per la didattica basate cosiddette “prescritture”, ossia notazioni che utilizzano codici grafici in un’ottica propedeutica rispetto al sistema di notazione tradizionale, nel tentativo di facilitare un primo contatto proprio con questo tipo di notazione[5].

Secondo la Bartolini questa visione delle nuove grafie come “scritture semplificate”, la cui introduzione è unicamente finalizzata all’acquisizione del codice tradizionale, non garantisce un contatto più libero col suono e con le possibilità offerte dall’introduzione di nuove modalità di produzione del suono, nuove strutturazioni temporali, nuove concezioni musicali e nuovi ruoli dell’interprete che sembrano essere variabili sempre più centrali nel panorama frastagliato della musica di oggi. Al contrario, «la produzione musicale che utilizza la scrittura grafica presenta ormai un repertorio vasto e molto articolato, e percorre direzioni autonome con obiettivi ben diversi dalla semplice facilitazione della lettura proposta dalle prescritture», inoltre uno degli intenti delle notazioni grafiche è certamente quello di «avvicinarsi a modalità e tematiche care alla produzione musicale contemporanea, a noi storicamente più vicina ma a torto considerata di difficile contatto»[6]. Ecco allora che proprio la varietà e l’apertura delle notazioni grafiche costituisce uno stimolo particolarmente importante per la formazione musicale degli alunni, perché li sollecita ad atteggiamenti più fluidi e duttili, indispensabili per lo sviluppo delle capacità creative e inventive[7].

Ancora come sostiene la Bartolini, «il sistema di scrittura non può considerarsi un mezzo “inerte”, perché attraverso la sua strutturazione viene ad individuare grammatiche musicali, concezioni estetiche e appartenenze storiche»[8]. Si consideri, a modo di esempio, come la notazione tradizionale operi una pesante selezione all’interno dell’enorme complessità della realtà sonora: «la scrittura tradizionale riesce ad inquadrare solo un settore ben delimitato delle possibilità di sperimentazione sonora, come ad esempio l’uso di un tempo misurato, ritmico, basato su relazioni matematiche semplici, l’utilizzazione di altezze determinate e la preminenza di alcuni parametri su altri»[9]. A queste considerazioni si aggiunga il fatto che qualunque partitura, inevitabilmente, orienta l’ascolto: anche se ci si sforza di renderla più completa possibile, essa resta una semplificazione, e in quanto tale abitua il lettore o l’esecutore a concentrarsi sempre su determinati aspetti del suono.

Veniamo ora ad alcune considerazioni sul segno. La musica è fatta di suoni ed ha come caratteristiche fondamentali l’udibilità e la temporalità; la grafica, utilizzando invece lo spazio (a due dimensioni) è percepibili mediante la vista e non nel tempo.

Nel momento della rappresentazione grafica degli eventi sonori, si ha un interscambio tra i due codici, in quanto l’ascoltatore, nell’analizzare e descrivere un suono, non si limiterà a classificarlo in base a proprietà acustiche specifiche, bensì proietterà su di esso l’esperienza che altri sensi, attraverso quello che viene definito transfert isomorfico[10]; «così parliamo di suoni alti o bassi, senza che in realtà i suoni si collochino nello spazio; oppure giudichiamo un suono, un disegno, un gesto, dolce o aspro, freddo o caldo, senza che siano entrati direttamente in causa il gusto o il senso tecnico»[11].

All’atto della formalizzazione grafica di un suono percepito, si avranno dunque delle trasformazioni di elementi sonori in visivi, mentre all’atto della lettura si andrà dall’interpretazione del segno grafico, attraverso l’attribuzione di un determinato suono al suo corrispettivo grafico. Non solo: si opererà, all’interno della complessa realtà sonora, una selezione di uno o più aspetti del suono. Più precisamente: quando due mezzi espressivi hanno in comune la stessa materia (ad es. la temporalità per la musica e il campo gestuale-motorio, oppure la spazialità per il campo gestuale-motorio e la grafica) essa rimane uguale nel passaggio da un mezzo espressivo all’altro, e spesso l’elemento fatto della materia comune viene selezionato per primo. Nel nostro caso invece, poiché la musica e la grafica non hanno alcuna materia in comune, si avranno solo operazioni di trasformazione.

Partendo da queste premesse relative alle problematiche di lettura della notazione o meglio “le notazioni” musicali, indispensabili per un lavoro di esecuzione/improvvisazione basato sulla lettura di partiture aleatorie, procediamo verso il tema centrale di questa ricerca, che nasce dall’importanza che ha lo sviluppo della creatività nella crescita dell’individuo nel suo complesso. Nei prossimi paragrafi si tenterà una breve panoramica degli studi storici che hanno affrontato il complesso problema della creatività.

Le discipline che hanno studiato e studiano i processi del pensiero creativo sono principalmente la psicanalisi, la psicologia e le neuroscienze. Il punto di partenze è trovare la risposta alla domanda: come si sviluppa il pensiero creativo? All’inizio del ‘900 fu la psicanalisi a provare a comprendere i meccanismi profondi che danno origine alle componenti tipiche del pensiero creativo. Per S. Freud sono le tensioni associate ai desideri repressi che invece di scatenarsi in comportamenti nevrotici si trasformano in attività creative. C. Jung in seguito elaborò il concetto di Inconscio collettivo, cioè una struttura psicologica costituita da archetipi, narrati nella forma del mito, condivisi dall’intero genere umano, e nei quali si rispecchia l’esperienza individuale. È dal rapporto dialettico tra archetipi opposti a generare le dinamiche psichiche da cui scaturisce l’energia creatriva.

  1. Wallas individuò quattro meccanismi comuni che si verificano in ogni processo creativo: la preparazione (lavoro preliminare di ricerca, raccolta di materiali e di riflessione libera e attiva), l’incubazione (periodo di tempo che trascorre tra la preparazione e l’illuminazione), l’illuminazione (momento in cui appare la soluzione al problema) e la verifica (fase nella quale si valuta criticamente la soluzione trovata prima di accettarla).
  2. E. Vinacke osservò che le varie fasi possono manifestarsi simultaneamente e che la stessa può anche ripetersi più volte, ed ipotizza che la fase dell’incubazione sia operante, in varia misura, durante tutto il processo creativo attraversato da numerose illuminazioni.
  3. Guilford nella metà degli anni cinquanta introdusse il concetto di pensiero divergente contrapposto al pensiero convergente. Nel pensiero convergente i ragionamenti convergono appunto verso un’unica possibilità, e il soggetto che ragiona in questi termini tende a ripetere il già appreso e ad adattare vecchie risposte a situazioni nuove in modo quasi meccanico. Il pensiero divergente invece si esprime in un processo che non ha andamento lineare, parte per direzioni diverse e consiste nel raccogliere, classificare e ricodificare le informazioni necessarie tra tutte quelle disponibili, localizzando connessioni utili a generare conclusioni nuove. Secondo Guilford quindi, il pensiero non si esaurisce nell’atto di intelligenza misurabile con QI, ma è invece scomponibile in una serie di abilità o fattori mentali: fluidità (capacità di produrre idee rapidamente ), flessibilità (capacità di produrre idee diverse a partire dallo stesso materiale), elaborazione (capacità di articolare un percorso ideativo razionale dall’inizio alla fine), valutazione e ridefinizione (capacità di selezionare idee e di riarticolarle in forme diverse) e originalità (capacità di concepire risposte originali)[12].

Per Cropley occorre però distinguere ciò che è specifico del processo creativo da ciò che è comune a ogni sforzo mentale di trovare soluzioni a un problema. È in questa ottica che lo psicanalista italiano Silvano Arieti introduce due concetti nuovi riguardo la creatività distinguendo tra creatività ordinaria e creatività straordinaria, la prima capace di migliorare la vita del singolo rendendola più ricca e soddisfacente, la seconda è quella capace di inventare nuovi modelli utili per tutti contribuendo al progresso della società.

Psicologi e studiosi delle neuroscienze concordano nel dire che per comprendere il fenomeno della creatività è necessario capire che non esiste una unica intelligenza. Gardner negli anni novanta afferma che esistono sette diversi tipi di intelligenza: linguistica, spaziale, musicale, corporeo- cinestesica, logico-matematica, un’intelligenza per le abilità interpersonali e un’intelligenza per le abilità intrapersonali. In ogni individuo possiamo riscontrare equilibri differenti tra queste diverse intelligenze. Secondo H. Gardner, «la creatività può essere descritta come quella capacità umana che consente di risolvere problemi»[13]. Possiamo dire inoltre che una delle peculiarità del pensiero creativo è quella del porsi domande, affrontarle a partire da conoscenze consolidate ma adottando sempre un punto di vista differente. Secondo Piaget l’invenzione è il risultato inevitabile della comprensione, o meglio essa è il processo attraverso il quale viene trovata una soluzione originale per risolvere un problema.

Incoraggiare il pensiero creativo è il solo modo con cui possiamo favorire il suo sviluppo. Il bambino che tendenzialmente pensa in modo convergente cerca di creare attorno a se un luogo ben ordinato e organizzato in cui procedere senza sforzo; al contrario quello che tendenzialmente pensa in modo divergente ha a che fare con una grandissima quantità di informazioni, non si crea un percorso privilegiato da seguire in qualunque situazione e per questo motivo le sue intuizioni sono spesso più ardue e rischiose. La creatività si rivela spesso nella tendenza a giocare con ciò che è già familiare, per coglierne nuovi aspetti e intuire implicazioni mai notate in precedenza. Cropley ci fa notare che queste caratteristiche spesso sono considerate indesiderabili nei contesti familiari e scolastici perché l’impulsività e il “lasciarsi andare” sfuggono facilmente al controllo. Nonostante ciò è preferibile abbandonare la logica del controllo e dell’imposizione a favore di un atteggiamento basato sull’ascolto, sulla valorizzazione delle opinioni dei bambini sin dai primi anni d’età, e sulla fiducia, promuovendo l’autonomia. Diventa così di primaria importanza considerare gli allievi non più come oggetti passivi dell’insegnamento, ma come soggetti attivi di un processo dinamico di apprendimento/insegnamento, in cui il ruolo dell’insegnante non sarà più quello di essere fonte di conoscenza ma sarà quello di coordinatore delle risorse dell’apprendimento. Il programma di studi allora dovrà adattarsi ed essere aperto, flessibile e interdisciplinare. Un approccio creativo di questo tipo consolida le motivazioni interiori dell’allievo ad apprendere per il piacere (come si diceva all’inizio di questo articolo) della scoperta, per la ricerca del nuovo, del diverso e dell’originale. In quest’ottica l’utilizzo di partiture con notazioni aleatorie, cioè che lasciano una certa libertà all’esecutore di scegliere e decidere con una certa autonomia sul procedere della musica crea le condizioni migliori per lo sviluppo del pensiero creativo.

Ogni persona ha in se delle competenze musicali di cui può essere più o meno cosciente. Queste competenze possono essere intese come un sapere, un saper fare e un saper comunicare[14].

Una delle funzioni principali del lavoro di improvvisazione musicale è quella di far emergere questo potenziale: rendere straordinaria l’innovazione, sorprendere con l’imprevedibilità, il cambiamento. L’improvvisazione musicale è la produzione istantanea di suoni, ma è anche avere la capacità di cambiare, è la magia dell’imprevedibilità, dell’invenzione, un mettersi in gioco e in discussione e prendersi un rischio.

Se consideriamo il fatto che ogni bambino, come dice Picasso, è un artista nato (nell’istintiva creatività che accomuna l’infanzia e nella capacità dei bambini di descrivere la realtà senza nessun condizionamento accademico, Picasso riconosceva la forza evocatrice dell’arte), una volta diventati adulti, i bambini perdono buona parte della propria capacità creativa e cominciano ad avere paura di sbagliare, perché nei sistemi educativi occidentali l’errore è la peggior cosa che si possa fare. Questo è il risultato se si continua ad educare la gente al di fuori delle loro capacità creative.

Ma è possibile insegnare ad improvvisare? Ciò potrebbe sembrare contraddittorio, specialmente se si pensa all’insegnamento come ad una serie di conoscenze e di precetti da trasmettere in modo unidirezionale[15]. In questo modo l’improvvisazione risulterebbe sterile già all’origine, ridotta ad un ristretto ventaglio di possibilità e regole da applicare pedissequamente.

Nell’improvvisazione non occorre imparare prima a suonare, non bisogna conoscere già la teoria musicale e l’armonia. Al contrario, proprio perché basata sullo sviluppo di capacità di ascolto attivo e di esplorazione della materia sonora, può essere utilizzata come strumento ottimale per una primaria alfabetizzazione musicale, attraverso un percorso che si sviluppa sempre in un processo che va dalla pratica alla teoria. L’improvvisazione didatticamente è efficace per favorire l’acquisizione di particolari abilità e conoscenze, è altrettanto utile come pratica sociale, finalizzata alla promozione individuale e collettiva nel gruppo. L’utilizzo di partiture aleatorie come guida e fonte di ispirazione per le lezioni d’improvvisazione, aiuta gli allievi a fare scelte coerenti con la grafia e quindi ad interpretare coerentemente la partitura, facilita l’apprendimento della forma e delle strutture musicali, sempre lasciando all’esecutore quella libertà che produce piacere e serenità, stati d’animo imprescindibili per una buona esecuzione.

L’ascolto è momento irrinunciabile da collegare principalmente alla individuazione delle peculiarità strutturali e delle caratteristiche formali di una musica, sia essa un brano di repertorio, ma anche il riascolto di una esecuzione degli stessi allievi registrata.

La capacita di lettura di un brano musicale è da intendersi nel doppio significato:

  • di lettura visiva globale da proporre, oltre che con l’ausilio della partitura, anche attraverso grafici, diagrammi, segni analogici di riferimento e di rinforzo cognitivo;
  • di lettura uditiva globale tale da condurre alla memoria e alla ricostruzione sommaria dell’opera.

Nella lettura si attua anche una primaria analisi che consiste:

  • nella individuazione, elencazione e definizione degli elementi costitutivi del brano;
  • nella ricerca delle funzioni di questi elementi all’interno della struttura stessa;
  • nello studio delle logiche organizzative che determinano la fisionomia del brano.

Insegnare musica partendo dal suonare partiture aleatorie mette in gioco le competenze di cui i ragazzi sono già in possesso, magari inconsapevolmente, rafforza le loro capacità creative, sviluppa le capacità di interpretare il segno grafico ed il senso del rispetto del suono degli altri attraverso l’ascolto. Inoltre «nelle situazioni cooperative, gli individui sono vincolati fra loro in modo tale che la probabilità che ha uno di essi di conseguire il proprio obiettivo dipende dalla probabilità che hanno gli altri di conseguire il proprio. Tra essi esistono relazioni di interdipendenza positiva poiché la condivisione dell’obiettivo comune diventa fattore propulsivo della crescita e dello sviluppo sia del singolo che del gruppo»[16].

Il modo di procedere per il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e per l’acquisizione dei contenuti deve essere il più possibile pratico: partendo da una globale esperienza esecutiva si mira all’organizzazione del sapere musicale, con la progressiva assunzione da parte dello studente di un modo ragionato e personale di interpretare la musica. I concetti teorico-grammaticali si innestano così nella reale esperienza della musica; sono da evitare le formulazioni e le elencazioni astratte e decontestualizzate.

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[1] Delalande F. (1993) pp. 50-52

[2] Della Casa M. (1985) p. 32

[3] McPherson e Gabrielsson (2002)

[4] Bartolini D. (1997), p. 22

[5] Bartolini D. (1997a), p.18

[6] Ibid. pp. 18-19

[7] Bartolini D. (1997b), p. 126

[8] Bartolini D. (1997a), p. 18

[9] Ibid. pp. 18

[10] Cano C. (2002)

[11] Tafuri J. (1982), p. 24

[12] Guilford J. (1957)

[13] Gardner H. (1991), p.43

[14] Stefani G. (1982)

[15] Della Casa M. (1985)

[16] Comoglio M. (1996)